Dalle video inchieste per Fanpage alla pubblicazione del suo ultimo libro, In fondo basta una parola, da poco in libreria.
È arrivato da poco in libreria In fondo basta una parola, l’ultimo libro di Saverio Tommasi, giornalista, scrittore, attore e noto volto di Fanpage. In occasione del festival de La città dei lettori, abbiamo incontrato l’autore e chiacchierato con lui a proposito del suo nuovo libro, del lavoro come giornalista reporter, delle storie che ama raccontare e di interessanti iniziative che lo coinvolgono.
Ciao Saverio, è un piacere conoscerti.
Ciao ragazzi, il piacere è mio.
Oggi sei qui al festival de La città dei lettori per presentare il tuo ultimo libro In fondo basta una parola. Questo libro lo definirei un piccolo dizionario biografico in cui la tua storia si intreccia a quelle di tante altre donne e uomini, spesso a quelle degli ultimi, di coloro che rimangono sullo sfondo nel grande quadro storico. Com’è nata l’idea di questo libro? E soprattutto l’idea di coniugare una specifica parola ad ogni capitolo, che è quasi un racconto a sé stante?
Sono effettivamente dei quadri e ognuno di questi basta a sé stesso fino al momento in cui non si lascia seguire o precedere dalle altre pagine. In quel momento, quelle storie e quei capitoli si accorgono di essere legati ad altri, proprio come accade alle parole o alle persone. Sono quindi autonomi, ma stanno molto meglio insieme agli altri ed è la stessa idea che io ho delle storie e della loro condivisione. Con il tempo mi sono reso conto che ci sono delle storie che, per la loro particolarità, rendono meglio tramite un racconto in video, e altre che necessitano della pagina scritta, che mi permette di raccontarle attraverso prospettive più ampie. Avevo delle parole che mi premevano e che in video non trovavano il loro posto; le parole sono importanti e ognuna pretende di avere un posto in cui star comoda. È un libro appunto fatto a capitoli brevi perché mi sono imposto di sottrarre il più possibile e sottraendo è rimasta la condensa di queste storie. Mi sono impegnato a dare alle parole il giusto posto, ma senza concedergli spazi superflui.
Questo libro è anche una sorta di confessione a cuore aperto. Racconti i traguardi raggiunti ma soprattutto, con molto coraggio, racconti le difficoltà, sia quelle vissute nel periodo dell’adolescenza, che quelle nell’età più matura. A tal proposito, qual è la parola che più ti ha ferito nel corso della tua vita, legata magari ad un particolare evento, e quale quella che più ti ha emozionato?
Ci sono poche parole di cui vorrei fare a meno, ma una di queste è odio, soprattutto quello ricevuto attraverso i social network: un tentativo costante di sottrarre credibilità, tempo, energia, attraverso parole che feriscono in profondità. Odio non ha la mia simpatia perché è una parola infertile, da cui non vedo spuntare radici, motivo per il quale non l’ho inserita nel libro. Non ho paura delle parole dure, ma di quelle che non lasciano speranza neanche nell’angolo. Ho inserito parole la cui accezione da vocabolario è negativa, ma alle quali, attraverso le storie, sono riuscito ad associare significati più ampi, con odio non ci riesco. Tra le parole, invece, che apprezzo c’è sicuramente delicato che ho ricevuto più di una volta nel corso di questi anni e spesso negli ultimi giorni, in merito ad un mio video sulle vicissitudini del tumore da un altro punto di vista. Alcuni dei complimenti più belli sono di pazienti o ex pazienti che vedendo il video ringraziano per la delicatezza con cui ho raccontato quella storia, pur con tutta la spudoratezza della sofferenza. E allora questa parola mi piace, me la tengo.
Nel capitole Storie ci parli del tuo rapporto con queste e di una sorta di ossessione a raccontarle, a conoscerne di nuove e forse a ritrovare dentro alle storie di altri un po’ di te stesso. Con il tuo lavoro a Fanpage hai conosciuto molte storie interessanti e toccanti. Tra tutte quelle ascoltate, qual è la storia che più di ogni altra ti è rimasta dentro, a cui spesso ripensi?
Dipende a seconda della giornata. Al momento ti dico il giro negli ospedali durante il primo lockdown. Ricordo il Dott.Volpi, medico dell’Ospedale Maggiore di Parma, che cercava il fazzoletto mentre mi confidava che con la morte e la sofferenza non si fa mai l’abitudine. Mi raccontava di quei tragici mesi, con decine di morti al giorno, mimando le carezze che faceva al suo chihuahua di ritorno a casa. L’unico corpo caldo che toccava da settimane. Nonostante ciò, sembrerà banale, ma tutte le storie che incontro mi lasciano qualcosa di indelebile addosso.
Davvero commovente…Nel libro definisci il sogno “un atto di insubordinazione collettiva” ed è quello che effettivamente stai facendo con la tua associazione, Sheep. Vuoi raccontarci qualcosa di questa bellissima iniziativa?
Certo! Sheep è strutturata come una ONLUS ed è stata capace di cambiare i destini delle persone. Insegniamo a gruppi di persone il lavoro a maglia e questa attività diviene la miglior scusa per conoscersi, raccontare la propria storia e compiere un gesto d’amore nei confronti delle persone che si amano creando per loro, e per sé stessi, qualcosa di caldo. Quest’anno abbiamo realizzato 587 coperte, coloratissime, unendo quadratini di lana inviatici da persone di tutta Italia. Le abbiamo distribuite a persone senza dimora e a quelle in fragilità economica elevatissima. Questo progetto cambia le persone e le esistenze e lo fa in maniera colorata, unendo la lana all’insegnamento di un’abilità spendibile ovunque.
Tra le parole del tuo libro ce n’è una che torna con insistenza, sto parlando della parola Dio. Parli dei rappresentanti della chiesa, della presenza di Dio e di quanto sia facile dubitarne in un mondo ricco di ingiustizie. Qual è il tuo rapporto con la spiritualità?
Io e Dio ci teniamo d’occhio, talvolta da lontano, talvolta da vicino. Non ci sono mai state litigate, qualche momento di minore frequentazione certo, ma sapendo che c’è lì un buon amico o amica su cui poter contare.
E con la chiesa?
Ci sono sicuramente alcune personalità viventi e non a cui sono molto legato, ma con la maggioranza dei rappresentanti della chiesa sono lontano. Nel mio piccolo provo a fare quello che consigliava Italo Calvino nel finale de Le città invisibili: concedere un po’ di spazio al paradiso. Perciò non azzardo una condanna totale, ma cerco di dare spazio al buono che c’è per provare a sedimentarlo.
In un mondo nel quale si comunica soprattutto per immagini, credo che la parola abbia sempre il peso più importante e, se usata bene, la capacità di veicolare messaggi chiari e rivoluzionari. C’è una sorta di maestro della parola, a cui tu fai riferimento o ti ispiri?
Nessuno, ma tantissimi. Opero con loro lo stesso procedimento che opero con le storie, cioè provo a lasciarmi contaminare e ad assimilare il buono che vedo in giro. Non c’è una persona in particolare e non è un atto di presunzione, ma la consapevolezza che sono diventato quello che sono per l’influenza di tanti e non di un singolo. Si potrebbero fare davvero tantissimi nomi, da Tiziano Terzani a Pierpaolo Pasolini, ad alcuni preti delle comunità di base, da Gino Strada a Martin Luther King, da Carlo Urbani (primo ad individuare la SARS) ad Anna Frank e Rosa Parks.
Un amante delle parole come te, non può che essere un vorace lettore. Il motto de La città dei lettori è “Leggere cambia tutto”. A tal proposito, qual è il libro o i libri che più di altri hanno cambiato il tuo modo di pensare? E quale libro, invece, regaleresti alle tue figlie?
Tantissimi! Daniele Mencarelli è il primo nome che mi viene in mente, lo trovo straordinario, parte da storie personali, feroci, dolorose, disadattate rispetto alla regola. Sicuramente Stefano Benni, ma anche Donatella Di Pietrantonio e il suo libro L’Arminuta. E sono gli stessi libri che consiglierei anche alle mie figlie. Mi piacciono molto anche le biografie, ovviamente quelle ben scritte che non hanno il solo intento di sfruttare il personaggio, ma di restituirne un’immagine nuova o diversa da quella già conosciuta. Lo stesso che provo a fare attraverso i miei video: guardare ciò che sta intorno, il laterale.
L’ultima domanda è una pura curiosità che ci piacerebbe soddisfare: cosa ti ha spinto a diventare reporter e scrittore?
Ho fame di novità e molte novità le trovo nelle storie degli altri. Non basto a me stesso. È un motivo egoistico, ad un primo sguardo, ma attenua il suo egoismo nell’attimo in cui penso che mi piace condividere le storie, raccontarle, e non tenerle solo per me. La voglia che mi spinge è quella di nutrirmi e di raccontare pezzettini di esistenze sparsi in giro.
A cura di Sara Pasquini