L’ America perduta, pubblicato in Inghilterra nel 1989, arriva in Italia per la Feltrinelli nel 1993. Rappresenta il reportage di viaggio che non può mancare nella libreria degli appassionati degli Stati Uniti e di tutti coloro che vogliono sapere qualcosa di più di questo grande paese. Bill Bryson, reporter di viaggi e noto giornalista per «The indipendent» e «The Time», trapiantato in Inghilterra, dopo vent’anni torna nel suo paese d’origine: gli Stati Uniti. L’obiettivo è quello di affrontare un lungo viaggio on the road sulla scia dei sui ricordi d’infanzia. Il punto di partenza del viaggio è la città di Des Moines, nell’Iowa, città che gli diede i natali e in cui vive ancora sua madre:
Lo stato dell’Iowa è situato proprio al centro della più grande pianura d’America. Da qualsiasi tetto dello stato si possono ammirare, a perdita d’occhio, insipide distese di grano. 1600 chilometri lo dividono dal mare, 700 chilometri lo separano dalle montagne più vicine, 500 chilometri dai grattaceli, dai delinquenti e dalla bella vita, 300 chilometri da coloro che, per rispondere a una domanda posta da uno sconosciuto, non hanno bisogno di infilarsi un dito nell’orecchio e trastullarsi la tromba di Eustachio per trovare la risposta giusta. Per riuscire ad arrivare in un luogo un po’ più interessante di Des Moines, è necessario un viaggio in auto che altrove sarebbe considerato epico: giorni e giorni di centellinata noia, in una fornace d’acciaio rovente, che si trascina su un’interminabile autostrada1
Alla soglia dei quarant’anni, dopo la morte del padre, Bill Bryson decide di attraversare gli Stati Uniti d’America, da est ad ovest, in sella alla vecchia Chevrolet di sua madre. Percorrerà 22.457 chilometri, attraversando ben trentotto dei cinquanta stati. La motivazione alla base del viaggio è ritrovare i suoi ricordi di infanzia in quel paese ormai lontano in cui si sente uno straniero in vacanza. Un viaggio in solitaria per ritornare con la memoria a quelle vacanze di famiglia trascorse con il fratello, la sorella, la madre e il padre in giovanissima età.
Una famiglia modesta la sua, nella quale il padre riuniva tutti i membri per decidere la destinazione annuale che, alla fine, appariva sempre deludente agli occhi dei ragazzi. Pochi soldi da spendere e un grande interesse per la storia americana e per le sue più piccole curiosità, spingevano il padre a scegliere luoghi di poco interesse per la famiglia. Attraversavano centinaia di chilometri per far visita alla casa o alla tomba di uno sconosciuto che aveva combattuto per il paese secoli fa. Adesso Bill Bryson, con nostalgia, ripercorre quei luoghi apprezzandone i paesaggi e dissacrando, spesse volte, il sistema organizzativo e il turismo di massa che li coinvolge.
Colpisce di questo reporter il suo essere critico e spietato, a tratti dissacrante con il paese che gli ha dato i natali. Come quando descrive i turisti che invadono, anche ad aprile, i luoghi più interessanti: obesi in bermuda, con la macchina fotografica al collo, il solito cappellino da baseball e l’aria stralunata. America perduta è un libro che strappa molti sorrisi e tante risate quasi come se si stesse facendo un viaggio con un vecchio amico.
Con Bill Bryson si va alla scoperta dell’America autentica, quella delle piccole cittadine in cui è possibile trovare soltanto un grande centro commerciale con spaziosissimi parcheggi e un caffè, quello delle lunghe Interstate che tagliano gli Stati per chilometri e chilometri. In linea con il viaggio autentico Bryson sceglie di alloggiare nei peggiori motel, simbolo dell’America on the road. Non mancano le grandi città in cui il reporter fa una breve sosta: New York, Washington, Boston, Las Vegas, Philadelphia. Emerge prepotentemente nel racconto l’importanza delle distanze, la vastità dei territori americani che si estendono per centinaia di chilometri.
Bill Bryson deve fare, inoltre, i conti con la disillusione del mito americano, quello costruito attraverso i film di Hollywood. Un altro degli obiettivi del suo lungo viaggio, infatti, è quello di trovare Amalgama city, una città ideale che corrisponda alla rappresentazione delle città americane che Bill ha sempre visto nei film, ma che si renderà conto non esiste nella realtà.
Quando ero piccolo, ogni pomeriggio, all’ora del rientro da scuola, la W.H.O., canale televisivo di Des Moines, trasmetteva vecchi film. Mentre gli altri bambini erano fuori a tirar calci a una lattina di birra […] io rimanevo in casa, in una stanza semibuia, davanti alla tivù, perso nelle mie fantasie, con un piatto di biscotti Oreo sulle ginocchia e quelle magiche scene, girate a Hollywood dritte negli occhi. […] Qualunque fosse la trama principale, era sempre ambientata in un luogo senza tempo e tranquillo. Anche nel bel mezzo di crisi drammatiche […], ero certo: da qualche parte esisteva2.
Il viaggio del reporter durerà diversi mesi, con una fitta tabella di marcia per visitare i luoghi che più lo incuriosiscono, quelli che ha visitato da bambino e le città più iconiche. Il racconto procede velocemente e Bryson, spesse volte, accenna soltanto ad alcune cose interessanti, senza avere la pretesa di raccontare in un libro, di trecento pagine, tutta l’America. Stimolanti quindi gli spunti e soprattutto i tanti aneddoti divertenti che troviamo in tutto il reportage. Emerge l’abilità di raccontare un paese in contraddizione con se stesso, in cui ad aridi spazi vuoti, tristi paesini con tremila abitanti, si susseguono paesaggi mozzafiato, montagne imponenti, parchi naturali tra i più belli del mondo e città lussureggianti. Bryson si perde spesso per le strade deserte d’America alla ricerca dei ricordi di un’infanzia smarrita.
Piacevolmente dissacrante ironizza su se stesso, sulle sue origini, sulla sua famiglia e su chiunque altro gli capiti sotto mano. Nel cicaleccio di un grande reporter, che sembra un amico un po’ bisbetico, gli occhi si riempiono di quelle lunghe strade, di quel cielo che assume tinte così impressionanti solo in quella parte del mondo e subentra nel lettore la voglia di percorrere quei chilometri liberi e soli.
I luoghi e i ricordi dell’infanzia si intrecciano con le impressioni di un reporter adulto che ritrova un po’ di sé in quel grande paese e si riscopre a tratti, quasi incredulo, ad apprezzarlo. È un libro da non perdere per chi ha voglia di intraprendere un viaggio on the road in America, anche solo con la mente. Ci si diverte ad ascoltare i racconti di un vecchio amico, dormendo nei peggiori motel d’America, osservando i paesaggi e i monumenti che hanno reso quel paese così iconico e sentendosi liberi attraversando i grandi spazi americani:
Proseguii fino a Des Moines che, nella luce del pomeriggio, mi sembrò molto grande e bella. La cupola dorata del municipio scintillava sotto il sole. Ogni centimetro era coperto di verde. La gente era nel prato a tagliare l’erba oppure fuori in bicicletta. Capii perché gli estranei che escono dall’autostrada e vanno a Des Moines, per un hamburger e per il pieno di benzina, ci rimangono per sempre. C’era qualcosa nell’aria che la faceva sembrare simpatica, pulita e bella. Potrei anche viverci, pensai, e mi diressi verso casa. Stranissimo, ma per la prima volta dopo tanto tempo mi sentii quasi sereno3.
1 Bill Bryson, America perduta, Milano, Feltrinelli, 2018, p. 19.
2 Ivi, 257.
3 Ivi, p. 302.