LETTERATURA FEMMINILE

Amo dunque sono: lettere di Sibilla Aleramo
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Amo dunque sono è il romanzo epistolare che Sibilla Aleramo pubblicò nel 1927. Al suo interno sono raccolte le quarantatré lettere che l’autrice scrisse, e mai spedì, all’allora amato Giulio Parise (nel testo rinominato Luciano). Giulio Parise, mago esoterico e insegnante di ventiquattro anni, e Sibilla Aleramo, allora cinquantenne, si conobbero in casa della marchesa Livia Durante Picardi. I due furono amanti a partire dalla primavera del 1926. In attesa del ritorno di Parise da un ritiro spirituale, Sibilla gli scrisse quotidianamente una lettera. Le raccolse e pubblicò in volume l’anno successivo.

Non rileggo queste lettere, le chiudo ogni sera, ciascuna in una busta numerata – saranno trenta, quaranta allorché potrò consegnartele? M’hai imposto tu di scriverti e suggellare così ogni giorno molte pagine che, dicesti, potranno poi essere il libro nostro.

Le lettere di Amo dunque sono colpiscono per la sincerità e profondità: l’autrice si mette a nudo confessando la propria solitudine, il pensiero di morte che la pervade nelle sere più tristi, la malinconia per il giovane amante. Sibilla sembra avvicinarsi alle arti mistiche di Parise richiamando spesso nel testo delle presenze notturne, spiriti, sensazione di una mano sul corpo, forse quella dell’amato, pensa lei, che cerca di comunicare o che le rivolge un dolce pensiero.

La Aleramo riesce ad intervallare ricordi autobiografici, di tempi passati, a pagine ricche di lirismo, di versi d’amore, facendo emergere la sua femminilità, il suo desiderio e, al tempo stesso, la sua insicurezza. Si interroga su Luciano, lo desidera, arde d’amore per lui, ma questo profondo sentimento la rende insicura di essere ricambiata, spaventata dalla possibilità di una delusione.

Felicità e spasimo nello spirito e nelle vene, come quando ci baciavamo e nel bacio terribilmente erano adunate tutte le forze della nostra vita, crudeli, folli, grandi, Luciano, mio Luciano, e tu ti staccavi dalla mia bocca, alzavi il viso, la luce era su te, scuotevi i capelli, raggiera di viola, dove vedevo i serpi della Medusa e i viticci di Dioniso. Così, distesa, io restavo, affascinata, le braccia aperte protese. […] Come allora, come ancora ieri l’altro sera, stamane che non so più nulla di te, Luciano, se già sei partito, se già navighi in cielo […]. Voglio credere in ciò che m’hai detto, voglio credere anche nel mio potere d’amore, e nel miracolo ultimo dell’universo.

Attraverso questo epistolario appare nitida l’immagine di Sibilla Aleramo scrittrice, donna, amante, poetessa, la quale abilmente delinea il racconto della condizione della donna letterata negli anni ’20 del Novecento. L’autrice, a tal proposito, fa spesso riferimento alle sue difficoltà economiche, ai prestiti degli amici, agli anticipi dell’editore. Descrive una vita vissuta in bilico tra l’impossibilità di pagare l’affitto e quella di poter avere una rendita per una pubblicazione.

La nausea di scriver lettere in cui il denaro chiedo a gente che ne ha, la nausea di ricever risposte senza originalità, quasi sempre negative, la serie incredibile d’esperienze che ho fatto sull’egoismo dei ricchi, egoismo foderato puntellato armato, mai nudo, tutto questo rapporto umiliante, direi degradante, ch’è poi la storia di tanti poeti e di alcuni genii.

Racconta di come le donne borghesi la invidino, vedendo in lei quella che loro avrebbero voluto essere: donna libera, sognatrice, indipendente. Ma appena Sibilla rivela loro le difficoltà del poeta, soprattutto se donna, i giornali che respingono collaborazioni, gli editori che danno compensi ridicoli, le coalizioni contro i lavori teatrali di una donna, queste rimangono allibite, incredule.

La Aleramo delinea tra le pagine l’ambiente della buona società romana del periodo fascista: la poca considerazione data alle donne scrittrici, il rapporto di queste con uomini potenti, facoltosi che offrono aiuti economici solo in cambio di intimità. Sibilla rivendica la sua condizione di donna scrittrice in una società maschilista, patriarcale, in cui alle donne non viene riconosciuto il merito letterario. A queste riflessioni e ai ricordi del passato si insinua feroce la brama di rivedere Luciano, di riaverlo accanto, di sentirlo suo, di appoggiarsi sul suo petto e sentirsi piccola, protetta.

Gettati senza premeditazione bocca contro bocca, la prima volta, dopo un anno che ci eravam conosciuti e piaciuti. La donna non più giovine e l’uomo ancora fanciullo, l’artista nota e il mago ignoto, la leonessa e l’aquilotto, e la loro crudeltà, il loro spasimo, il loro sogno nel centro dell’universo. Baci di sapore ineffabile! Ogni bacio conteneva mille e una parole. Parole intrise di gioia, di pianto, di mare lontano, di vento alpestre.

Un libro profondo che consegna al lettore la parte più intima di questa straordinaria scrittrice del Novecento italiano (qui trovate il nostro articolo su Sibilla Aleramo).

Redazione Letturificio
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