Pubblicato nel marzo 2012, Fuga dal campo 14, è un libro inchiesta scritto da Blaine Harden, giornalista del «New York Times», sulla storia di Shin Dong Hyuk.
Questo nome ai più non dirà molto, ma Shin è uno dei pochi sopravvissuti ai campi di prigionia della Corea del Nord e questa è la storia della sua permanenza nel campo e della sua incredibile fuga.
Il campo di prigionia da cui Shin è riuscito ad evadere è tutt’ora attivo ed ha una superficie grande quanto quella della città di Los Angeles. Al suo interno, le organizzazioni mondiali che, da anni, hanno preso in carica questa causa contano che siano rinchiusi tra i centocinquantamila e i duecentomila prigionieri.
I campi di lavoro nordcoreani, tuttora funzionanti, esistono da un periodo di tempo doppio rispetto ai gulag sovietici e dodici volte superiore rispetto ai campi di concentramento nazisti. Sulla loro collocazione geografica non ci sono dubbi: le immagini satellitari ad alta risoluzione, disponibili su Google Earth a chiunque abbia accesso a internet, mostrano ampi perimetri recintati disseminati lungo le impervie campagne della Corea del Nord.
Inserendo, infatti, su Google Earth “Bukchang concentration camp” si può vedere con i propri occhi il campo, incastonato tra le impervie montagne nordcoreane.
I campi sarebbero sei, tutti circondati da recinzioni di filo spinato ad alta tensione e pattugliate da uomini armati. I campi 15 e 18 sono campi di rieducazione, mentre gli altri, compreso il campo 14, sono a regime duro. I detenuti all’interno si occupano di estrarre carbone dalle miniere, cucire divise militari, coltivare i campi e sono sostentati da una dieta a base di mais, cavolo e sale. Non hanno possibilità di lavarsi ed utilizzano latrine comuni. All’interno sono, inoltre, presenti diverse fattorie e luoghi destinati alle esecuzioni.
Coloro che sono rinchiusi all’interno del campo non hanno avuto diritto ad alcun processo, la Corea del Nord infatti prevede, come nel caso di Shin, di incriminare i cittadini in base ai legami di sangue e parentela con i trasgressori.
Shin aveva già scritto una autobiografia, distribuita soltanto in Corea del Sud, che purtroppo non aveva ricevuto l’attenzione desiderata. È stato il giornalista del «New York Times», insieme ai tanti attivisti, a convincerlo a raccontare la sua storia in un libro in inglese: questo avrebbe permesso a tutto il mondo di conoscere la verità.
All’interno del campo, Shin viveva con sua madre, con cui ha sempre avuto un rapporto difficile, violento, di rivalità per la sopravvivenza. Quella nel campo è una situazione talmente tragica da spazzare via qualunque legame, la fame talmente tanta da spingere genitori e figli l’uno contro l’altro, come spie pronte a tradire. Shin conosce a mala pena i fratelli che vivevano in un’altra area del campo e vedeva il padre solo le poche volte che veniva a fare visita a lui e a sua madre. Non ha avuto una famiglia, non sapeva quale fosse il significato di quella parola, dell’affetto di un genitore e sta lavorando ora per scoprirlo.
Nato all’interno del campo, non aveva idea di cosa esistesse al di là del filo spinato. Nella scuola interna i professori insegnavano solamente a rispettare la Corea del Nord e il suo leader, manipolando la storia a favore del proprio paese. Shin non conosceva la geografia, non sapeva quale paese confinasse con il suo, era ignaro di tutto ciò che si trovasse al di fuori di quel piccolo mondo nel quale era cresciuto. Un primo spiraglio verso il mondo esterno gli fu dato da due uomini che conobbe all’interno del campo, prigionieri politici lì reclusi, che avevano avuto modo di visitare altri paesi del mondo.
Uno dei benefici perversi di essere nato nel campo era una totale mancanza di aspettative, ed è per questo che Shin non sprofondò mai nella disperazione più totale. Non aveva nessuna speranza da perdere, nessun passato da rimpiangere, nessun orgoglio da difendere. Non trovava degradante leccare la zuppa dal pavimento. Non si vergognava di implorare il perdono di una guardia. La sua coscienza non veniva scossa se tradiva un amico in cambio di cibo. Erano pure e semplici tecniche di sopravvivenza […].
Shin da sempre cresciuto con gli ideali imposti nel campo non conosceva la fiducia nel prossimo, sempre pronto a tradire per un boccone di cibo, e ignorava cosa fosse l’affetto per l’altro. Pur non conoscendo il mondo e ciò che si celava dietro quel filo spinato, pur non potendo sentire la mancanza di qualcosa che non aveva mai avuto, iniziava a nutrire il desiderio di fuggire da quei continui soprusi, dalla fame e dalla schiavitù.
Tutto nella sua storia è legato alla fame, perfino il desiderio di evadere. La prima volta, infatti, che qualcuno gli parlò del mondo, stuzzicando la sua curiosità, fu quando un uomo, incontrato nella prigione interna al campo, gli raccontò delle prelibatezze mangiate in Cina (paese di cui Shin non aveva mai sentito parlare, prima di quel momento).
A metà dicembre del 2004, iniziava a pensare alla fuga, insieme ad un uomo, Park, che aveva vissuto all’estero ed era sposato con una donna di buona famiglia. Il sovrintendente aveva assegnato a Shin il compito di insegnargli a riparare le macchine da cuciare e, nel frattempo, apprendere informazioni sul suo conto e riferirle.
Shin, per la prima volta, decideva di non sottostare alle regole e di non fare la spia: Park è stata la prima persona di cui Shin si è fidato nella sua vita.
Diversi studi sui campi di concentramento hanno dimostrato che l’unità base per la sopravvivenza è la coppia, non l’individuo. La sopravvivenza è possibile in quanto obiettivo condiviso. Ciò successe anche a Shin, che probabilmente senza il sostegno dell’amico Park, non sarebbe mai riuscito ad evadere. Dopo essersi confrontato con Park, nella mente di Shin inziava ad affacciarsi l’idea che quella non era la sua casa, ma una prigione.
La storia di Shin essendo incredibile, ed essendo pochissimi quelli che nel corso della storia sono riusciti ad evadere da un campo della Nord Corea, fu esaminata attentamente da avvocati specializzati in diritti umani, forze di polizia, giornalisti esperti, ex prigionieri ed ex guardie di campi di concentramento, risultando inoppugnabile e straordinaria.
La vita di questo sopravvissuto non è stata facile dopo la fuga, in un mondo totalmente sconosciuto, e non è facile ora da uomo libero. Shin negli anni ha fatto fatica ad adattarsi ad una società tanto distante da quella del campo di prigionia, riscontrando difficoltà relazionali, soffrendo di sindrome post-traumatica da stress. Come tutti i sopravvissuti, ha avuto bisogno di elaborare le ragioni della sua sopravvivenza.
Oggi vive in Corea del Sud e anni di terapia e di supporto da parte delle organizzazioni competenti lo stanno aiutando a diventare davvero un uomo libero dal proprio terribile passato. Shin oggi è un uomo in grado di raccontare la propria storia al mondo, consapevole di dover far conoscere la verità, pur dovendo scoprire ferite ancora fresche, e continuare a puntare i riflettori su una realtà tanto orribile.