Tra i più importanti testimoni dell’olocausto, suo malgrado, ricordiamo Primo Levi e il suo libro-testimonianza Se questo è un uomo, letto in tutto il mondo e tradotto in 41 lingue.
Ma Se questo è un uomo non è l’unica opera dell’autore, tra i saggi di più importante testimonianza storica troviamo I sommersi e i salvati. Se, infatti, in Se questo è un uomo Levi racconta la sua esperienza per necessità, scrive su carta la sua fondamentale testimonianza storica a pochi mesi dall’accadimento dei fatti, ne I sommersi e i salvati troviamo un uomo maturo, che ha riflettuto per anni sulla sua condizione di sopravvissuto.
Primo Levi scrive, infatti, questo saggio 40 anni dopo Se questo è un uomo e impiega circa dieci anni per la stesura. Porta a compimento tutte le riflessioni fatte nel primo libro, ma scandagliando ancora di più la sua anima, il mondo interiore di un uomo che è sopravvissuto ad uno degli eventi storici più bui di tutti i tempi. L’opera si batte contro ogni falsificazione storica, con l’obiettivo di non dimenticare i fatti accaduti e dare delle risposte ai tanti quesiti che un evento così tragico ha posto all’intera umanità.
Questo saggio risulta fondamentale per capire non solo l’efferatezza di quegli eventi storici, ma soprattutto le conseguenze su chi è sopravvissuto. I sommersi e i salvati è un’opera che va letta per comprendere fino in fondo quanto i campi di concentramento abbiano distrutto non solo il corpo, ma soprattutto l’anima. L’anima dei sommersi, di coloro che non ce l’hanno fatta, ma anche dei salvati, che sono tornati per raccontare le torture disumane subite e per vivere tutta la vita attanagliati da dubbi sulla loro persona e il loro vissuto.
Quello che troviamo all’interno di questo libro è la lucidità di Levi, uomo di scienza, ma anche la fragilità, le contraddizioni da cui lui stesso è attanagliato. Il libro viene pubblicato nel 1986, pochi mesi prima del suicidio dell’autore, elemento esplicativo della tragicità della sua testimonianza. Levi parte dalla presa di coscienza di non essere un testimone. Sottolinea che la sua testimonianza è parziale perché è un sopravvissuto. Sono i sommersi, coloro che non ci sono più perché hanno vissuto l’orrore fino in fondo, quelli che avrebbero potuto fornire una testimonianza adeguata.
Essere sopravvissuto, come racconta Levi pone dei dubbi, ai quali non si riesce a dare risposte. In quel luogo le scelte, soprattutto quelle morali, erano ridotte al nulla, l’unico pensiero era la fame, la sopravvivenza. I sopravvissuti non si sentono fortunati, ma provano vergogna, sentono responsabilità.
I “salvati” del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.
La vergogna è uno dei temi centrali del saggio. La vergogna di essere sopravvissuti al posto di altri. La vergogna di aver vissuto in modo animalesco, sopportando promiscuità, sporcizia perché a cambiare è il metro morale dei detenuti. La vergogna per le colpe che altri hanno commesso, un peso schiacciante da portare sulle spalle. Tra i delitti più demoniaci del nazionalsocialismo Levi riconosce proprio quello di tentare di spostare sulle vittime il peso delle colpe, scegliendo una squadra speciale di ebrei a cui affidare la gestione dei crematori.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, ne non abbia valso a difesa1.
L’autore, riflette anche sul tema del suicidio, sulla cosiddetta zona grigia e sul rapporto tra oppressi e oppressori, a sottolineare che in quel luogo infernale la demarcazione tra vittime e persecutori non era così netta. Cerca di rispondere agli stereotipi sui lager, a quelle domande che più di frequente gli sono state poste: perché non siete fuggiti? Perché non vi siete ribellati? Perché non vi siete sottratti alla cattura prima?
Levi non scrive solo un saggio di testimonianza, ma con questo testo contribuisce alla formazione di una nuova coscienza critica nei confronti del tema trattato. Un’analisi chiara e lucida proprio quella di uno scienziato che lascia spazio alla riflessione più profonda, umana, introspettiva, con l’obiettivo di testimoniare, ricordare, rispondere a quei dubbi che hanno attanagliato ogni sopravvissuto e quelli che si sono posti tutti coloro che hanno ascoltato le parole dei reduci.
Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto, può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre.
1Tratto da La tregua , di Primo Levi