Giovanni Verga scrive Storia di una capinera durante un soggiorno a Firenze nel 1869. L’anno successivo il romanzo viene pubblicato a puntate. Il libro narra la storia di Maria, giovane di vent’anni, che fin da bambina è costretta a vivere in un convento di clausura. Il piccolo angolo di mondo, tra le gelide sbarre, inizia a starle stretto quando, durante un soggiorno in campagna a causa del colera, conosce Nino e se ne innamora. Da qui comincia la lotta interiore di Maria tra desiderio e senso di colpa.
Di seguito abbiamo immaginato che Maria affrontasse una seduta di terapia dallo psicologo riflettendo sulla sua condizione e sui cambiamenti in atto.
Buonasera Sig.na … Maria? È corretto se la chiamo semplicemente Maria? Mi racconti che succede, perché mi hanno chiamata qui al convento? Come si sente?
Buonasera Dottoressa, può chiamarmi semplicemente Maria. È questo il nome che si cela dietro questo abito, quello scelto dalla mia cara madre, chiamata troppo presto nel regno di Dio. Hanno insistito a chiamarla perché la febbre ha divorato per giorni le mie carni, le mie mani sono tremanti e ho un bruciore nel petto. In verità ho iniziato a sentirmi debole, nervosa, isterica, malaticcia dopo esser tornata dalla campagna. Lì ho vissuto alcuni dei momenti più sereni della mia vita: ho riscoperto la libertà, il contatto con la natura e tutti i doni che il signore ci ha offerto. Questo abito mi è stato spesso di intralcio, limitava molti dei miei movimenti, io invece adoravo correre per i pascoli. Non sappiamo mai cosa la vita ci riservi. Nella sfortuna di essere stata mandata in campagna, nella casa del mio buon padre, per via del colera, ho trovato inaspettatamente visi amici.
Le sue ultime parole evocano qualcosa di bello e positivo, cosa può aver scatenato il malessere di cui mi sta parlando?
Non so spiegarle Dottoressa. È difficile comprendere cosa si celi dentro il nostro cuore, nel nostro animo. Posso solo dirle che mi sembra che tutto mi stanchi, mi pesi, mi dia noia. Tutto mi è argomento d’inquietudine, di turbamento ed anche di sgomento. Lo stesso non saper trovare una ragione agli impeti improvvisi di allegria folle e quasi delirante, ed alle repentine tristezze che mi assalgono, mi spaventa. Adesso mi sento infelice in mezzo a tutti codesti doni del Creatore che benedissi altre volte. Non so spiegarle la mia tristezza…o meglio la probabile causa di questo malessere mi fa sentire ingrata e cattiva verso il buon Dio che mi ha colmata di tante benedizioni, ingrata verso il mio caro babbo che si è sforzato di dissipare la mia tristezza, ingrata verso la mia famiglia e i miei amici. Arrossisco per ciò che sto dicendo Dottoressa, la prego di non giudicarmi.
Le viene in mente qualche evento in particolare che potrebbe aver scatenato questa situazione?
Beh..non avrei mai pensato di dirlo ad alta voce, di confessare i miei desideri, o meglio i miei peccati, ma tutto questo mi sta logorando. Sento dentro di me l’impotenza di lottare contro un sentimento così forte, che mi rende felice e, allo stesso tempo, mi soggioga. Vorrei esser bella come ciò che sento dentro di me; getto uno sguardo su di me e mi rattristo non trovando che un saio nero, dei capelli tirati sgarbatamente all’indietro, maniere rozze. E poi penso alle altre ragazze, eleganti, libere, che non fanno peccato se amano come io amo. È iniziato tutto durante il mio soggiorno in campagna. Lì mi sentivo libera, azzarderei felice. In quel luogo ho conosciuto i figli dei vicini di casa di mio padre, Annetta e Nino. Con lui, in particolare, facevo lunghe passeggiate tra i boschi di castagni, ci divertivamo correndo come bambini, lui era così attento che io non inciampassi per via del mio abito. E una sera abbiamo anche ballato. Immagina che emozione può essere stata quella per me? Le gambe mi tremavano, sentivo il sangue bruciare in tutte le vene. Mi sussurrava parole confortanti. Il cuore mi si spezzava sentendo battere quell’altro cuore contro il mio! Per la prima volta mi parve di esser felice. Una felicità sfuggevole alla quale io stessa mi son dovuta opporre per via di questa vita, di questa scelta che scelta mia non è mai stata.
Ha usato tante volte la parola “libera” Maria, e mi pare di intuire che qualcosa invece nella sua vita l’abbia costretta a scelte non sue… me ne vuole parlare?
Dato che ormai le ho rivelato il più inconfessabile dei miei segreti, le racconterò la verità anche sulla mia permanenza in convento. Fui rinchiusa qui dentro all’età di sei anni, dopo che mia madre morì, con la promessa che qui sarei stata amata da altre madri. In verità, fu la mia matrigna a volermi confinata in questo piccolissimo angolo di mondo, chiusa in una gabbia come una capinera, circondata da gelide sbarre. E pensare che se non avessi provato la libertà e le gioie che sono fuori da queste mura, mi sarebbe davvero potuto bastare quest’angolo di terra, uno spicchio di cielo. È tutta colpa di quella donna e di questo luogo se io e Nino non possiamo amarci. Qui si sono accorte che qualcosa in me non va, riconoscono in me il demonio e sono convinta che presto mi confineranno nella cella delle folli..io non lo permetterò.
Cosa accadrà dopo il nostro incontro Maria? Cosa intende fare?
Io voglio fuggire, non posso rimanere qui, devo andar via da queste grate, via da queste mura. Devo volare via, come un uccello che ritrova la libertà. Non posso finire in quella stanza, io non sono pazza..
Maria è la giovane fanciulla che ho incontrato al Convento di Catania. Il luogo e la veste che indossava la identificano e la legano imprescindibilmente ad un ruolo che però ho capito molto presto non appartenerle. La ragazza con cui ho parlato è fortemente travagliata da emozioni e sentimenti contrastanti e terribili e, persino nel suo corpo, inizia già a mostrarsi il grave disagio di cui è prigioniera. Mi ha raccontato subito del suo sentirsi debole e malaticcia, nel corpo e nell’anima, e di come si sia resa conto del crescere di questo stato dopo essere tornata dalla casa del padre, dove era stata mandata, a causa dell’epidemia di colera. Purtroppo, si capisce fin dalle prime parole, quanto l’aver “sentito” risvegliarsi dentro di sé sentimenti ed emozioni tipici di una ragazza della sua età, l’abbia catapultata in un tremendo travaglio a metà tra il senso di colpa e peccato, ed il suo desiderio di non obbedire ad una imposizione. Maria, fattasi suora non per reale vocazione ma piuttosto per decisioni famigliari, in campagna ha scoperto il sentimento dell’amore. Questo non avrebbe comportato una così grave compromissione se, a quel punto, avesse potuto scegliere liberamente di lasciare il convento per vivere la vita che desidera per se stessa. Invece, la situazione le impone di restare al suo posto e il disagio psicologico che questo comporta la costringe in una dualità aspra e terrificante: si trova ad essere al contempo una giovane di vent’anni alle prese con i primi desideri, ed una peccatrice colpevole di desiderare appunto ciò che non dovrebbe. In questa lotta interiore la vera sfida di Maria sarà riuscire a trovare una forma di equilibrio o di adattamento. Temo che, rimanendo costretta tra le mura della sua cella il suo decorso possa complicarsi in qualche grave forma di quella che comunemente chiamiamo follia.
Follia
La parola follia identifica, in maniera molto generale, una condizione psichica definibile come una mancanza di adattamento alla società e alla realtà da parte di una persona. Il termine, seppur appartenente alla psicologia e alla psichiatria, è molto più in uso nel senso comune per indicare una marcata instabilità mentale. Essa può manifestarsi, anche in maniera non del tutto consapevole, in comportamenti che tendono spesso all’inosservanza delle norme sociali (con conseguente rischio di pericolo per sé e per gli altri) e ad un marcato distacco nelle relazioni interpersonali. Tali stati psichici alterati possono raggiungere gradi di sofferenza molto gravi, quali la schizofrenia o la psicosi.